Prefazione al libro
"Il Trebbeto" di Adolfo Giuliani
a cura della prof. Clara Guarino
La stanza è buia. Su un cavalletto accanto alla finestra è
stata posta una tela bianca. Adolfo la fissa affascinato,
sforzandosi di penetrare in quella dimensione sovrumana.
Quel bianco assoluto, bello, ambiguo e cosiassurdamente
profondo genera un attimo di smarrimento. Egli pensa che la
tela bianca della nostra esistenza, quella, però, che
dovremmo coprire dei nostri segni personali, frutto della
nostra autonomia è già condizionata.
Da bambino ha vissuto gli orrori della
guerra, trascorrendo le sue giornatetra il terrore e il
pericolo, tra l’istinto e la ragione, lottando e respirando
l’angoscia per le vicende alle quali, suo malgrado, era
chiamato a fare da spettatore e, talvolta, partecipe.
Scugnizzo tra gli scugnizzi, ha vissuto
l’inaudita crudeltà e le immani tragedie di una umanità
violentata. La sua esistenza è stata segnata dalle
vicendedel popolo napoletano, della cui vita si è fatto
custode commosso, ancora fortemente innamorato. Ecco che già
il primo segno sulla tela bianca è statoimpresso.
Quasi senza accorgersene, travolto
dalleemozioni e dai ricordi, comincia a scrivere.
Composto con entusiasmo giovanile, ma con
la saggezza degli anni che nel rispetto degli effetti,
esigono la giustificazione delle cause, “Il Trebbeto”,
ultimo lavoro di una trilogia, ha visto la luce in coerente
gestazione. Quella dell’individuo che inventaria l’immenso,
inattingibile respirato in folgorazioni fisiche e
sentimentali, e, nella sua martellante presenzabiologica,
contesta il computo puntiglioso delle trame quotidiane,
gravide di antecedenti le cui ombre, talvolta oscurano la
speranza futura. Ha poi avuto, con la vitalità di un vino
generoso, il tempo di fermentare, di ritualizzarsi nei
filtri che riassumonoe rivivificano quanto si è guardato
senza contemplazione e si è giudicato senza riflessione,
vale a dire l’intatta corposità della stagione ineffabile,
quella che dà valore a ogni umana impresa. Non si sarebbe,
diversamente, colto il sospiro tra l’esigenza di rinunziare
al sogno per dare corpo alla vita e la necessità di sognare
per accettare e continuare a vivere, alimentando dei
contenuti sociali. Lavita è sogno, è l’ombra di un sogno in
fuga, è sogno di un sogno, è “eidolon”
reale, per chi la gestisce, è spesso ombra per noi
che,proiettati sulla tela dei condizionamenti esistenziali,
variamo, con la luce, contorni e dimensioni. Nelle
dimensioni del fare l’uomo, almeno,verifica le sue
possibilità, può essere un segno sulla tela e nessun segno;
può essere addirittura l’antitrama e guardare con distacco
il quadro sociale che, per eccesso di colore, di usure, di
squilibri si sovraccarica, può disfarsi, inglobarsi nel
profondo di un taglio, di una smagliatura oltre la quale
passa il vento del nulla.
Adolfo Giuliani, è riuscito a trovare
tracce del senso, del valore efinanco della bellezza della
vita, anche nella tragedia della guerra e nelle prove del
viver quotidiano, nel degrado di una città alla quale è,
quasi visceralmente, legato e che profondamente ama.
Quella domanda, che custodiva nel suo
animo come segreta speranza per il domani, sente di
rivolgerla a tutti noi, allorché un bidone, mezzo
arrugginito, tutto ammaccature, scalciato e sballottato a
destra e a manca da tutti, non gliela strappa dal petto,
sollecitando una risposta. Allora Adolfo Giuliani sente
l’impulso di chiedere, insieme agli
esasperatisti:
«Perché quest’umanità si va svuotando della sua essenza?
Perché corre, perché evapora in una emotività che non
produce senso, perché si rattrappisce sempre più nel
presente, perché non coltiva più i sogni?». Nel “Trebbeto”
Adolfo Giuliani pare voler riprendersi e riportare nelle
segrete pieghe dell’animoquell’interrogativo, per nutrirlo
della speranza edare a esso una nuova forza tragica, un
nuovo prometeico vigore. E lo fa parlandoci, talora, in
dialetto, quasi a cercare le profonde e vitali energie di un
popolo che ha sempre percepito la gioia in forma quasi
dionisiaca, la tristezza quasi cantandola, la fame e la
violenza fino alla ferocia, la cultura e il “sapere” come
eccellenza del vivere. Ma che si perde in una quotidianità
priva di quel senso di cui il bidone continua a parlare e
domandare, mentre,
rotolando, mette in moto la speranza.
Clara Guarino
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